Era il 2 luglio 1949, giorno della morte di Gheorghi Dimitrov.
Stavamo facendo le prove nella Sala Bulgaria, il giorno successivo si doveva tenere il concerto-saggio del Conservatorio, avrei suonato la quinta sinfonia di Beethoven. Dirigeva Marin Goleminov, il violinista era Vladko Avramov. Durante le prove entrò un uomo, ci interruppe e disse che Gheorghi Dimitrov era morto, per cui non ci sarebbe stato nessun concerto.
Lasciammo il palco, e là dietro le quinte c’erano i ritratti di Dimitrov, Lenin e Stalin.
Io dissi così, in una stretta cerhia di persone: “Questi due son morti, ma quando se ne andrà anche quello, il terzo?”. Intendevo Stalin. Questa affermazione probabilmente fu la benvenuta per questi che hanno sentito, poiché già in precedenza avevo fatto dichiarazioni e critiche simili.
Il 6 luglio, alle 6.30 di mattina, si presentano un miliziano e due civili.
Perquisizione, e così via, come è loro abitudine. Dopo di che: venga con noi per una breve verifica. E mi sbattono nella Sesta Divisione, in un seminterrato mi sbattano. All’inizio non c’era nessuno, poi iniziarono a volare persone, a straripare. Venne Jorge Tsilev, poi venne Bogdan Boshnakov, e così capimmo che succedeva qualcosa. Appena entrato, Bogdan Boshnakov disse: “Non aver paura, al massimo ci mandano in un Lager, che vuoi, sai che sorpresa!”
Ma i ratti e i topi ci avrebbero divorato già lì. Provate ad immaginare: uno scantinato buio, nel quale non c’era posto per muoversi, e appena posavi un piede o ti sarebbe scivolato qualcosa sotto le gambe o dopo poco si sarebbero avvinghati due o tre ratti.
Alle tre di notte ci caricarono su una camionetta per portarci da qualche parte. La camionetta era aperte, nei quattro angoli miliziani con mitragliatrici.
Appena ci fummo seduti, gridarono: “Giù la testa, e guardate in giù!”.
Ci condussero alla Quinta Divisione; poi da là, insieme ad un’altra camionetta di arrestati fino al Poligono di Tiro, per spaventarci.
Con me c’era uno della famiglia Ghendovic, Sasho Ghendovic. Piagnucola: “Adesso al Poligono ci fanno fuori”.
Ma Bogdan Boshnakov dice: “Su. Smettila, chi vuoi che si sporchi le mani con noi!”
Lasciato anche questo posto, arrivammo alla Terza Divisione, sul boulevard Praga.
Lì arrivò una terza camionetta, con gente rastrellata nella notte della morte di Gheorghi Dimitrov.
Da qui, come arrivammo, direttamente a Bogdanovdol, vicino al vecchio paese di Batanovtsi, oggi Temelkovo. Là c’era il Campo, c’erano miniere e si fabbricavano mattoni.
Arrivammo alle cinque, all’alba. Ci accolse un bel tipo, si chiamava capitan Ghershanov. Attaccabrighe ed ubriacone, uguale a lui non esiste nessuno. Tutti, camionetta dopo camionetta, ci sbatterono in una stanza, molto piccola, schiacciati l’un contro l’altro. E dall’alto soffiavono qualche vapore per spidocchiarci, ma noi pensavamo di essere finiti in una camera a gas. Saremmo soffocati, prova a sederti dentro per quaranta minuti.
Dopo di che ci hanno assalito con parolacce colme di rabbia: “Salve, sporchi bastardi! Tirapiedi di Hitler, avanguardia di Truman!”, e dopo questo botte, botte, botte… Terminata anche questa fase: “Forza adesso, siete dei marzapani, prenderete stuzzicadenti”.
Cosa significa stuzzicadenti?
In cima alla collina passava la ferrovia per Kiustendil. A due a due ci spogliarono nudi, lasciandoci in mutande, e da quei vagoni pieni di tronchi di 10-12 metri, scaricammo il carico sulle nostre spalle e li sistemammo in mucchi ordinati. Questa fu il primo impatto con il Campo.
Là visi il mio compagno di studi Stefan Savov, figlio di Dimiter Savov; vidi Ivan Sharev, un gran bravo ragazzo, anche lui mio compagno di studi. Anche loro erano stati appena portati lì, in occasione del funerale di Gheorghi Dimitrov.
Incontrai là anche Svintila, il traduttore Gheorgi Mitskov, il medico Rusi Ikonopisov, che aveva studiato presso il Collegio Americano e lavorato presso l’Ambasciata Americana: svolgeva il lavoro di medico là nel Campo.
Dopo circa un mese mi mandarono a fare i mattoni: là per prima cosa ti sbattono nel fango, per mischiare il fango; tu sai cosa vuol dire far questo lavoro? Tonnellate di fango….
C’era un certo Atanas il Macedone di Petric, e faceva l’antenna (cioè… spione per il Campo).
Ti malediceva, ti insultava e ti batteva più dei miliziani. Quanta rabbia ho dovuto ingoiare a causa sua! Perché tu sei un uomo che non sei abituato a questi lavori, ma loro vogliono che tu rispetti subito le consegne.
I primi due giorni, appena tornato dal lavoro, mi conducono dal Capitano, e il Capitano, il suddetto Ghershanov, mi batte. Successe così: Ghershanov al centro, quattro miliziani agli angoli. Lui si fa sotto, ti prende a pugni e calci e ti lancia a un miliziano. Il miliziano ti salta addosso e ti butta ad un altro per prenderti a calci, poi all’altro, quaranta o cinquanta minuti, anche un’ora.
Dopo di ciò, tutto insanguinato, vai a stenderti in cella fino al mattino, e senza far colazione vai di nuovo a lavorare. Così era lui, figlio di…. Una cosa terribile.
Dopo di che… c’era la giostra nel campo. Stavi nel fango una decina di giorni, poi ti mandano ai banchetti (cioè a stendere i mattoni). E cia così, per un mese e mezzo.
Poi Ghershanov urla: “Allora, banditi, idioti, luridi bastardi, ficcatevi là dove non c’è uscita”
E ci divisero in squadre; in quell’occasione vidi Krum Nevrokopski, un mio vecchio amico, e ci sbatterono nella miniera. Krum Nevrokopski lavorava nella miniera delle lastre, la quale era terribile. Piena d’acqua fino al ginocchio, più le rocce. Io invece fui assegnato in una miniera più bella, senz’acqua… ma 80-100 metri sotto terra piena di gas grisù. Appena respiri questo gas, impallidisci e perdi l’appetito, ti passa la fame. E ti spingono nelle gallerie. Con una piccozza devi scavare un metro e ottanta i pozzetti, sai cosa vuol il pozzetto?, fare buche, rimuovere il materiale scavato, ripulire e preparare per il successivo turno, che arriva all’una o alle due di notte e inizia a allestire dentro gli esplosivi. Ed iniziano a far esplodere le mine nel settore, ed durante queste esplosioni alle persone si spezzano le costole, cedono i puntelli, si spezzano le travature… ma niente di cui aver paura!
Allora eravamo di turno insieme al generale Ianciulev. C’era anche un buon uomo, un bell’uomo, aveva 29 anni, pilota di caccia, si chiamava Dobri Tsancev. Egli fuggì dal lagher, ma vicino alla frontiera serba lo beccarono e lo riportarono di nuovo nel lagher. Anche a Belene venne con me, andava in giro mezzo nudo anche d’inverno, a trenta gradi sottozero. Fumava pipa simile ad un sassofono, olandese, la riempiva, la accendeva e diceva: “Sì, paparino, andrò, farò il mio lavoro, e vi aiuterò”.
Si capisce, le battiture durante questo ciclo fioccavano. C’era un tale, chiamato Marin Hagiiski, zoppicante, e ci faceva da “educatore”. I nostri educatori erano alcuni agenti della Sicurezza di Stato, e davano istruzioni su come dovessero comportarsi le guardie con noi. Il regime si serrava molto quando arrivavano questi tipi. Non arrivava soltanto lui, anche altri, ma Hagiiski era quello che più si occupava di Bogdanovdol.
Il 4 ottombre 1949 siamo in miniera, e verso le 5 sono in cordata col generale Ianciulev. E accade che qualcuno di sotto si addormenta, non da il segnale e i vagoncini e i carrelli pieni si scontrano con quelli vuoti, escono dai binari, e il carbone si rovescia dappertutto. Non basteranno tre giorni per ripulire la miniera: ciò significa sabotaggio, fratello mio, così lo chiameranno. E così lo chiamarono. Torniamo dal lavoro alla sera e Ghershanov urla: “Bastardi! Sabotatori! Adesso andrete là, dove non c’è ritorno!”. E stettimo là tutta la notte, non ci mandarono a dormire nelle baracche. Al mattino, verso le 5, fecero arrivare quattro vagoni per il trasporto cavalli, con le reti di ferro. Su, adesso, dentro i vagoni per andare là dove non c’è ritorno. Lo ricordai a Simeon Penkovski, un gran bravo avvocato, ed mi dissie: “No parlare così, perché domani porteranno il mio volto ai cortei, ma te ti sbricioleranno!”. Era molto coraggioso, e il maggior Strichinov ugualmente, meravigliose persone. Non nascondevano alcuna parola, parlavano come se fossero a casa loro.
Ci caricarono sui vagoni e viaggiammo tre giorni da Bogdanovdol a Belene. Sarebbe bastato un giorno, ma ne fecero fare tre, per nascondere la cosa, manovre, fermate in linee morte, soste per attendere le tenebre, poi ti fanno scendere e risalire, e così via.
E noi non sappiamo dove ci portano, sicuramente in qualche Lagher, ma dove sia non si sa, potrebbe essere in Dobrugia o altrove. Infatti in Dobrugia c’erano i lagher di Nojarevo, Zagrad, Zabunovo, Kufalgia… questi campi erano famosi, tutti e quattro in Dobrugia, ed erano terribili.
Comunque sia, ad un tratto, il secondo giorno, sento dire che stiamo andando alla stazione di Belene. Arrivammo, aprirono i vagoni. Fuori era strapieno di miliziani, con i fucili puntati, come se fossero arrivati dei banditi.
Fu martellato il paese di Belene, esso è un paese cattolico, con queste parole: “Qui arriveranno scassinatori, ladri, razziatori”.
E quello zelante paese si nasconde e spia attraverso le tende che specie di idioti sarebbero scesi dal treno. Sulla riva del Danubio ci fecero una visita, ci registrarono i nomi nei nuovi registri e iniziarono a trasferirci sull’isola Persina.
In quel tempo il comandante del Campo era Anghel Kurtev.
Per i periodo che io fui là, posso testimoniare che Anghel Kurtev non colpì mai nessun uomo, non battè nessuno, mai nessuno ingiuriava. Si comportava umanamente con le persone, cioè, si capisce, umanamente nel limite del possibile. Addirittura aveva ordinato alle guardie di non venire con noi dove lavoravamo, e praticamente noi lavorammo quattro mesi senza guardie. Diceva: “Non scappate, neh, altrimenti vi creeranno problemi, lavorate e basta”.
Dopo di lui venne Kitov, figlio di…. Diametralmente opposto.
Ci trasferirono con delle zattere. Durante il mese di luglio era arrivato il primo convoglio, e avevano già fabbricato le capanne. La capanna era per 70 persone, un quadrato scavato nella terra e ricoperto con rami, paglie a foglie, senza porta. E così d’inverno entrava tutto: pioggia, vento, neve; tutto ciò che c’era fuori, c’era anche dentro. Ma un uomo si abitua a tutto, come un cane, e a 28 gradi sottozero tu dormi, non c’è che dire.
Il primo lavoro era la raccolta della canapa. Il cibo era scarso. Una spescie di orrenda sbobba di fagioli o di patate, più spesso era solo acqua calda con due foglie di cavolo dentro. E un pezzo di pane. Quattordici-quindici ore di lavoro al giorno, ma se a Belene non rispettavi le consegne, restavo a lavorare di notte, fino alla fine.
Siccome non c’era niente da fare, saremmo morti di fame, e una volta il maggiore Strichinov, mentre eravamo vicino al Danubio, disse: “Dai, scaviamo qui sulle sponde, sicuramente qualche biscia d’acqua c’è”. Tira su un serpente, gli taglia la testa, lo infilza su un bastone e gli abbrustolisce un po’ la pelle al fuoco. Serpente all’aceto con semi di canapa: con questo tirammo avanti quattro mesi.
Dormivamo come sardine. Io dormivo vicino a Stoicho Mushanov, dietro di me c’era Ilia Kairiakov, pure lui democratico, vicino a lui Stoian Mavrov, anche lui democratico, e così via.
Durante la notte non potevo muoverti, prima di tutto perché eri come una sardina, in secondo luogo perché (grazie a Dio quando non dovevi andare a pisciare!) quando tornavi non trovavi un posto dove stenderti, e resti in piedi fino all’alba. E insieme avevamo tutti deciso di pisciarci nelle mutande, ma… dormivamo coscia a coscia, perché non c’era posto. Così tutto puzzava di ammoniaca, delizioso profumo.
Vidì là ogni specie di persone: deputati del Partito Agrario, socialisti, pastori protestanti, sacerdoti cattolici, funzionari pubblici. C’era l’ex ministro plenipotenziario di Washington, Sasho Naumov; il segretario di Nicola Mushanov, l’avvocato Mushunkov, un uomo buono e giusto. Tra gli agrari mi fece una buona impressione Nedko Botev, settantenne, non si lamentava mai, lavorava, non voleva aiuto da nessuno. C’era Pesho Serbina (Peter Serbinski), pure lui si comportava bene là. Tuttavia i migliori, le persone più pure e calorose, senza una piccola gocci adi tradimento, erano gli anarchici. Devo confessare che rispetto a loro noi non valevamo un fico secco. Ricevevano i pacchi, e lui prendeva una piccolissima parte, ed tutto il resto lo condivideva, veniva, ti sosteneva, ti chiedeva se eri stanco. Questo solo un anarchico poteva farlo. Erano caparbi e rispondevano per le rime, a testa alta. E combattevano contro i miliziani. Mettevano uno straccio sotto i vestiti, la facevano dentro e gliela gettavano addosso. E si sapeva chi lo faceva, solo gli anarchici lo facevano.
Perciò ogni sera almeno uno di loro pernottava nel carcere. Mi ricordo Iov Petrov, Trifon Terzijski, nonno Acio, anarchico di Dobric, settantaseienne, fiero, come se fosse davanti alla nonna, niente lo scalfiva. Davanti ai miei occhi morì Tsveti Ivanov, lo conoscevamo bene, si beccò il tetano da un chiodo, dovrebbe infilzarsi anche il medico che l’ha fatto morire.
Riguardo alle persone, la cosa che mi faceva più impressione era che tutti erano tormentati, ciascuno a modo suo, secondo le proprie condizioni spirituali, anche i più deboli sopportavano con dignità le cose, senza piagnucolii e smorfie.
E’ vero, c’erano furbacchioni, che facevano da orecchie per gli informatori. Erano pochi, durante la mia detenzione non erano molti. Tuttavia non facevano chissà cosa, non si dedicavano principalmente a farti del male, facevano solo le spie e passavano informazioni.
Facevamo anche degli scherzi. Arrivò uno di Pleven, un avvocato, faceva il galletto (così chiamavamo quelli che se la facevano sotto per la paura). Questi nuovi arrivati li chiamavamo “marzapani”, poiché erano ancora dolci, non sapevano niente. E gli dissimo così: “Qui non è molto brutto, devi solo dare al responsabile del campo una richiesta, con marca da bollo di 10 leva, e gli chiedi di assegnarti una capra e una mucca. Le porterai a pascolare, berrai il loro latte, e quel che resta lo offrirai ai miliziani”. “Ah, è così? Bene, molto bene!”.
E quello la sera presentava la richiesta. E ridevamo un sacco, appena si rivolgeva al capo e quando si avvicinava a lui, quando lo gonfiava di sberle sentendo della capra e della mucca. Succedevano anche queste cose.
Durante l’inverno era molto dura. Dissodavamo i terreni per renderli coltivabili. Gli ordini erano che ogni prigioniero dovesse sradicare tre salici al giorno, a testa. Non solo tagliarli, ma sradicare anche i ceppi dalla terra congelata. Prova a scavare intorno a due piante, e vedrai come si fa sera alla svelta, e cosa significa restare a lavorare di notte a meno venti, meno trenta gradi, dopo essere stato fuori tutto il giorno. In questi momentu gli anarchici ci aiutarono molto, erano persone robuste.
C’erano due tedeschi con noi: Otto Erhard e Walter Artur Stiureman, ancora qui dai tempi delle truppe tedesche. Loro non avevano nessuno che gli spedisse qualche aiuto, andavano scalzi con gli zoccoli nella neve, poveri cristi. Quando ricevevo qualcosa lo condividevo con loro, diventammo amici. In occasione del Natale 1950, tornando dal lavoro, dissero: “Oggi faremo un cenone”. Cosa sarà mai? Avevano preso una lepre. Avevano veramente arrostito una lepre, così ci sedemmo…
E dopo che ci fummo ben rimpinzati, per la prima volta in assoluto, Walter si rivolge a noi e dice: “Beh, non era proprio una lepre… ma un gatto”. Beh… a chi importava cos’era?
Il 15 febbraio 1951 il tempo si fece un po’ più caldo, e il Danubio cominciò a salire. Fummo trasferiti a lavorare sugli argini. Costruivamo questi argini per evitare l’inondazione dell’isola. Gli ordini erano di trasportare 6 metri cubi di terra a testa per 300-400 metri, con delle carriole. C’erano prigionieri che crollavano per la fatica e, si capisce, prendevano le loro belle botte lì a terra.
Iniziarono ad inondarsi alcune parti dell’isola. I miliziani evacuarono tutti dall’isola e li sistemarono nei blocchi sulla sponda bulgara. Noi, una quarntina di persone, come terribile nemico, fummo lasciati lì. Non c’era posto per noi, e la milizia decise di sacrificarci. Dicevano: “Eh, quello che vi capiterà, vi capiterà”. Ci diedero un sacchetto di farina. Restarono con me Dobri Stanciovski, aviatore, Neno Shomkov, gli industriali patriottici di Gabrovo: Konkilev, Monevni, Kaplazanov. E la situazione divenne molto critica, l’isola si allagava sempre più; il secondo blocco era leggermente più in alto, ma mancavano 30-40 metri e presto l’acqua lo avrebbe sommerso.
Essendo il più giovane, mi lasciarono di guardia, in alternanza con Dobri. Ricordo una luna, enorme, e un rintronare, per le lastre di ghiacchio trasportate dall’accqua, ettari di ghiaccio.
Le lastre di ghiaccio si sollevavano e si scontravano tra di loro, e l’acqua saliva e saliva. Nessuna salvezza. Ho visto come è spaventosa una inondazione col ghiaccio.
Alle tre di notte l’acqua arrivò a venti metri da noi. Svegliai Dobri Stanciovski e gli dissi: “Ascolta, Dobri, e adesso che facciamo?”. “Cosa facciamo? Muoriamo, se riusciamo a morire. Dai, andiamo a svegliare gli anziani”. E così svegliammo i più vecchi e li aiutammo ad issarsi sugli alberi. Ma Dobri mi disse: “Aspetta! Noi andremo più avanti, guarda, su quel grande albero in mezzo all’acqua”. Ma quell’albero era già sott’acqua per metà… “Non è pericoloso là, dissi io, presto potrebbe crollare”. “Nessun problema, risponde lui, quando il ghiaccio lo spezzerà, ci metteremo a cavalcioni, e se le lastre ci taglieranno le gambe… ci buttiamo sotto e riposeremo in eterno, amen”. Lo diceva come quando qualcuno ti invita a bere una tazza di caffè.
Intanto l’acqua saliva, ghiacciata. Prese un pezzo di corda, ci legammo ed entrammo nell’acqua. Lui davanti, io dietro, brancolavo come una barchetta di carta. Arrivammo all’albero e mi issò. Ci sedemmo sui rami alle tre e mezza di notte, e sotto di noi l’acqua continuava a salire.
Lui disse: “Tieniti forte e fissa lo sguardo da qualche parte, perché se guardi giù il ghiaccio che si muove ti fa venire le vertigini. Guarda là, le luci di Zimnic in Romania!”.
E così passammo la notte. Ma quando venne il giorno, e si vedeva bene al di sotto… che terrore! Stettimo seduti sui rami per tre giorni e due notti.
Allora, siccome la sponda romena è più bassa della bulgara, tutta la piena del fiume si riversò là. I romeni non riuscivano a tollerare questa cosa, e allora… avanti, dieci bombardieri a sganciare bombe per spezzare le lastre di ghiaccio. Gli aerei lanciavano le loro uova, e noi sotto, seduti a guardarle cadercele intorno… Puoi immaginarti che divertente spettacolo fosse…
Sull’isola Magarets seppellivano i morti. Questa si trovava un po’ più a sud ovest. Ma venivano sepolti anche sull’isola Persina. Ogni tanto ordinavano così: “Escano quattro persone per scavare una fosse”. Morivano, alcuni si spegnevano di stenti e cadevano, altri li ammazzavano. Molte volte qualcuno veniva portato via, oppure usciva di notte e lo mitragliavano, soprattutto quando erano impauriti. Come al fronte…
Tra i dirigenti fu molto crudele Kitov, e tra i miliziani un certo vecchio Veliko.
C’era anche un certo Atanas, un uomo meraviglioso. Quando riceveva dalla moglie un pacco, per esempio di frutta secca, lo divideva in piccole parti: un po’ a te, un po’ all’altro, anche voi siete persone. Esistevano anche tali miliziani.
Ma, oggettivamente parlando, quando un bulgaro è nel bisogno, sta bene; ma quando è un uomo libero, mica si vedono queste qualità, cioè aiutare qualcuno di propria iniziativa. Deve essere in un disperato bisogno, allora le fa. Altrimenti no.
Questa è la mia impressione, perché quando tu vedi un uomo nel Lagher, non è come vederlo ad un matrimonio o all’osteria; qui si trova in situazioni estreme.
Una volta trasferimmo una grande mandria di bovini dalla riva alle stalle, circa 400 capi, era il 26 novembre, faceva un freddo cane. Non c’era il ponte, non c’era niente.
Il bovino nuota, tuttavia quando si radunano nel guado 15 o 20 bovini, è impossibile.
Ci mandarono a gruppi di cinque e ci legarono con una corda alle corna dei bovini, e nuotando a rana li trasportammo, nuotando dalle 4 alle 9 di sera.
Mi punsi con aghi e spilli, ma il sangue non circolava nelle mie mani. Mi salvò il fatto che i miei amici avevano riscaldato una pentola d’acqua, e bevetti, bevetti. Tornando al Campo grondavo sudore. Sudai anche durante la notte, e al mattino stavo bene. E nessuno di quelli che parteciparono a questa missione si ammalò e morì.
Il nuovo anno, il 1950, lo trascorremmo con Stoicho Mushanov. Allora avevamo già le brande.
Stoicho mi dice: “Ho fame”.
Io gli rispondo: “Che vuoi farci? Faccio un giro alle cucine a vedere se c’è qualcosa”.
Vado alla cucina del Campo, nulla. Vado alla cucina della Milizia: una cipolla abbandonata su di un tavolo. Da dentro veniva il rumore di una macchina da cucire… Mi spaventai un po’… mi avvicino e la prendo. Ritorno e ce la dividiamo in due, per festeggiare l’anno nuovo. Op, e altri due si avvicinano e dicono che hanno fame. Olè, anche a loro: la dividiamo in quattro. Mi ricordo che avevamo acceso una candela sopra un asse, e noi tutti barbuti e consumati dal vento e dalle fatiche festeggiammo il capodanno. Appena mangiata, i nostri stomaci iniziarono a brontolare, perché la cipolla aveva risvegliato l’appetito. E non essendoci altro, iniziammo a guardare attorno come i gatti nel mese di marzo, e notammo per terra una copia del giornale Izgrev. Lo prendemmo e lo strappammo: Stoicho ne prese metà, io un quarto, l’altro quarto agli altri. E ci mangiammo questa copia del giornale Izgrev. Così festeggiammo il nuovo anno 1950.
Questi sono i ricordi più piccanti. Ma quante volte ci ordinavano di correre verso i blocchi: tu corri per arrivare, e loro ti frustavano. C’erano con noi anche zingari, li chiamavamo Petliakargii. Spesso durante queste corse si voltano e dicevano: “Allora, amici, dove ci portate? A un ballo, per correre così?”. Così gli rispondevano! Erano pazzi a dire così.
Provocarono deliberatamente il maggior Strihinov: “Maggiore, intonaci una marcia per il campo”.
La canzone era: “La nostra bandiera è rossa come sangue, falce e martello il nostro glorioso simbolo”.
E il maggior Strihinov cantava: “La vostra bandiera è rossa di sangue”.
Lo colpivano, cadeva, si rialzava e di nuovo cantava: “ La vostra bandiera…”.
E’ morto cinque anni fa, girava per le strade di Sofia con una carrozzina, come un facchino.
La vita è davvero qualcosa di imprevedibile e movimentato, non posso farci niente, noi uomini non sappiamo mai in quali ingranaggi della ruota possiamo cadere.
Tuttavia c’è una cosa sicura: impari a conoscerti meglio, quando fai il bilancio di quel che resta, ciò che per te è sacro, quello in cui credi, dove è il tuo tesoro prezioso, e proprio per questo sei pronto a confessarlo in qualunque situazione. Vedi, là c’è la bilancia per cose simili.
Ricordo un certo dottor Proinov, dentista, che fece il dentista per l’aviazione turca, e perciò lo avevano condotto nel Campo come spia. Un giorno mi faceva male un dente, e dopo due o tre giorni sarebbe scoppiato. Lo chiamo, gli chiedo cosa dobbiamo fare. “Bene. Se fossimo a Sofia, saprei cosa fare. Ma qui… qui cosa vuoi che faccia?”, e mi dice: “Aspettiamo che guarisca da solo”. “Come aspettiamo che guarisca? Impazzirò! Soffro terribilmente!”.
Ricordo che allora prese un chiodo da muratore, lo scaldò al fuoco, non c’era alcool, niente… Prese delle pinze da muratore e con un martello il chiodo, rimosse la corona del dente, lo scavò qui e là, senza anestesia, e mi disse solo: “Aggrappati al tavolo e stringi forte”. E con le pinze mi strappò il dente.
In ogni situazione ci sono momenti quando la tua vita cade così in basso, e pensi a Goethe, a Beethoven, a Bach, a Michelangelo, a Kant, e ti dici: l’umanità risuona di fierezza.
Ma in situazioni come quella ti ricordi solo delle parole di Nietsche, e dici: a vent’anni odi l’uomo, a quaranta la società, a 60 la vita.
Testimonianza di Trifon Silianovski, “Banchetto di Capodanno”,
tratta da: AA. VV., Il gulag bulgaro. Testimoni, Sofia 1991, pp. 107-117